ARTE FOTOGRAFICA: INTERVISTA A STEFANO SCAGLIARINI

Una fotografia è uno specchio sulla realtà, riflette e ci fa riflettere su ciò che ci circonda.

Per trattare quest’arte abbiamo intervistato Stefano Scagliarini, giovane fotografo milanese classe 1990, vincitore di diversi premi anche a livello europeo

Qual è il ruolo del montaggio per veicolare il messaggio di un video? Mi riferisco a Green world e a Roche Italia che ad esempio hanno struttura simile e tuttavia risultano ben distinti tra loro

Il montaggio in un video è tutto. È come la costruzione delle frasi o la punteggiatura di un libro, senza sarebbe un insieme di parole sparse senza senso.

Questa tecnica è entrata a far parte del mio percorso di studi nel 2009, quando ho scelto le avanguardie sovietiche e la teoria del montaggio cinematografico russo come argomenti per la tesi di maturità. Sono così entrato in contatto con Ėjzenštejn, Kuleshov, Dziga Vertov, registi e teorici che hanno cambiato la storia del cinema, soprattutto con quello che viene “il montaggio delle attrazioni”. L’idea è quella di creare un significato terzo, non lineare o esplicito, ma che si crea nella mente dello spettatore grazie alla giustapposizione di immagini anche diverse e contrastanti tra loro. In questo senso la tecnica dello split screen, ovvero la divisione dello schermo in due o più sezioni, usata nei due video rappresenta una evoluzione digitale di questa tecnica.

Who says photos are motionless, video molto bello, come ti è venuta l’idea?

Ho deciso di andare oltre la bidimensionalità delle immagini per creare un nuovo spazio ibrido al confine tra video e fotografia. L’idea fa parte di un filone di video realizzati attraverso la manipolazione e animazione di alcune delle mie fotografie. È una tecnica cui sono molto affezionato perché mi permette di unire fotografia, video e effetti sonori creando un’atmosfera unica.

Facendo ricerca per questa intervista, ho notato che associ alle foto dei brani musicali, in che modo combini/abbini musica e foto, anche all’interno del tuo processo creativo? Come/da cosa trai ispirazione?

Per me la musica è un quotidiano veicolo di emozioni e al tempo stesso lo uso come amplificatore del mio umore, del mio mood, delle mie idee. Ci tengo a definirmi un ascoltatore aperto a tutti i generi. Pur non essendo musicista, ho voluto comunque inserire la dimensione sonora in tutto quello che faccio, grazie a quelle che definisco, aperte associazioni. Sono cresciuto con una estrema passione per le colonne sonore nel cinema che considero uno strumento essenziale per il coinvolgere lo spettatore all’interno della narrazione.

Scelgo la musica con l’obiettivo di amplificare l’aspetto visuale, e spesso quando decido di fare una fotografia ho già in mente le parole di una canzone. In questo caso l’ispirazione deriva proprio dal testo o dalla melodia. In altre occasioni è un processo associativo che conduco a posteriori, ma sempre in maniera naturale. Non mi piace forzare collegamenti audio visuali.

Nella sezione Photo Awards, mi hanno colpito molto la composizione delle immagini e il gioco di accostamento e contrasto tra i colori, quanto studio e lavoro c’è dietro ad una realizzazione di una foto? Come e da cosa trai ispirazione?

La composizione è per me parte fondamentale di ogni fotografia, così come gli accostamenti cromatici. Anche nelle foto più spontanee cerco di esaltare, al momento dello scatto, l’equilibrio tra forme, figure e spazio. Dietro ogni foto c’è la mia formazione in design in cui il Politecnico di Milano ha rivestito un ruolo fondamentale. Qui ho imparato l’importanza del progetto e della ricerca che mi accompagnano anche nella dimensione fotografica. Cerco ispirazioni multidisciplinari che mi aiutino a tradurre le idee in manifestazioni visuali

Perché hai scelto di realizzare un progetto sulla sindrome di Usher?

Tutto è iniziato dall’idea di scrivere una tesi sull’amplificazione sensoriale della fotografia. Dopo innumerevoli tentativi falliti nel contattare associazioni che operano nell’ambito della disabilità visiva, ho incontrato in Noisy Vision un interlocutore appassionato e disponibile. Dario Sorgato, il fondatore, ha aperto le porte del suo mondo facendomi conoscere la sindrome di Usher, accogliendomi a braccia aperte a Berlino, dove vive, e mettendomi in contatto con altri ragazzi, Luigina e Alessandro. Con loro ho instaurato da subito un profondo rapporto di amicizia che continua ancora oggi e che considero il risultato più importante della mia tesi.

Cosa cambia tra comporre e realizzare un’immagine fotografica in bianco e nero rispetto a una a colori?

Ho sempre prediletto il bianco e nero. Anche in fase di ripresa, pur fotografando a colori, preferisco mantenere l’anteprima in bianco e nero in maniera da porre maggiore attenzione sul contrasto e le luci. La complessità dei colori per me è molto più difficile e delicata da gestire, soprattutto in fase di postproduzione. Per questo, se la foto è a colori dedico maggiore attenzione e cura ai dettagli ed esigo molto di più. Troppi colori, ad esempio, creano molta confusione se non sono perfettamente organizzati e bilanciati.

Che tecnica hai utilizzato in The shape of trees?

Ho realizzato questo progetto in toscana, in luoghi legati a ricordi di infanzia. Ho cercato di rappresentare delle forme organiche, reali, traducendole in qualcosa di più astratto e concettuale pur mantenendo un legame con la natura, per questo ho lasciato che la corteccia emergesse. Il cielo invece è diventato uno spazio totalmente bianco che nella mia idea vuole comunicare una sensazione di quiete e tempo sospeso.

Per le ricerche, ho preso come principale riferimento il tuo sito. Seguendo l’ordine, ho visto immagini e video a colori e in bianco/nero, poi all’improvviso sbuca BLACK-GROUND, ce ne puoi parlare?

Black-ground è uno dei miei primi esperimenti fotografici, una ricerca stilistica che ha accompagnato il mio periodo di formazione che mi ha aiutato a comprendere meglio l’importanza della luce. Il ragionamento che accomuna questa serie di immagini, è che anche dai momenti più bui e neri della vita può emergere uno spiraglio di luce e colore. La ricerca e realizzazione di queste foto, infatti, non è per niente semplice e casuale, richiede attenzione nel cogliere il momento giusto e saperlo riconoscere.

Cos’è, per te, un luogo comune?

Luogo comune rappresenta ciò che tutti dicono e pensano, è una superficialità linguistica che in questo caso ho voluto esprimere visivamente cercando luoghi ordinari e superfici comuni restituendo loro una dignità e profondità visuale. Spesso per torpore mentale è facile ragionare per luoghi comuni, soprattutto per sentirsi parte di un gruppo, quando invece la realtà è più complessa e richiede più cura e attenzione. Citando Nanni Moretti, “Le parole sono importanti” e cosi le immagini che utilizziamo.

Musica, fotografia e poesia: qual è il legame che li unisce?

Il legame è sicuramente il coinvolgimento emotivo e percettivo.

Non ho trovato molte informazioni, puoi parlarci di Scarm?

Scarm è uno di quei progetti che considero incompiuti e che vorrei, soprattutto in un periodo storico come questo. Scarm è una cicatrice, un segno che concorre a creare l’identità di un’epoca che ha combattuto contro una grave malattia, il vaiolo. È un marchio sul braccio che ha attraversato anni e generazioni, concetto che viene enfatizzato dalla struttura ad archivio della sequenza fotografica. Le immagini, infatti si susseguono e si viene a creare una sorta di catalogazione. Ho voluto dedicare particolare attenzione anche all’unicità del segno di ogni cicatrice. Per realizzare il progetto ho chiesto la disponibilità ad amici e conoscenti. Grazie al passaparola ho conosciuto Anna, la cui storia è molto particolare. Il medico del suo paese, infatti, aveva l’abitudine di fare una cicatrice molto più grande ed evidente, a forma di V che stava per Vaiolo.

Se penso alla tecnica stop motion, mi viene in mente Nightmare Before Christmas e Wallace e Gromit, com’è realizzare un video con questa tecnica particolare?

È una tecnica che richiede molta pazienza, ma che, proprio per questo, restituisce grandi soddisfazioni. Ho approfondito e imparato la tecnica dello stop motion grazie a un corso che mi ha introdotto a questo magico mondo. Si realizza con una animazione manuale e a ogni movimento corrisponde una fotografia. Messe in sequenza come fotogrammi di un film donano li movimento, più fotografie ci sono più il movimento sarà fluido.

Uno dei tuoi progetti più recenti è Tragitti di dati perduti. È interessante come fattori casuali possano imporre un cambiamento ed una evoluzione, diventando qualcosa d’altro rispetto rispetto all’idea e alla composizione originale. Cosa ti ha fatto venire il desiderio di lavorare con del materiale “danneggiato” rimodellandolo in qualcosa di nuovo rispetto all’originale perduto?

Sicuramente alla base c’è l’idea di riciclo e sostenibilità fotografica. In un mondo in costante produzione di immagini ho voluto salvare dal cestino delle fotografie rovinate, frutto della rottura di un hard disk contenente diverse memorie sotto forma di fotografie e documenti. Ho deciso di rivalutarle e riadattarle a un nuovo percorso creativo le immagini
stratificate, sovrapposte e caratterizzate da dei glitch, dandogli una seconda vita, molto lontana dall’originale. Inoltre, la riflessione ultima si è rivolta proprio al concetto di oblio e obsolescenza, tematiche con cui bisogna scontrarsi in un mondo sempre più legalo alle memorie binarie connesse a supporti tecnologici e che presto andranno invecchiando lasciando spazio ai nuovi sistemi come ad esempio il cloud.

Che consiglio daresti a chi vuole cimentarsi nella fotografia?

Il consiglio è di non fotografare i tramonti, ma di girarsi e fotografare la luce che fa esplodere sulle superfici alle nostre spalle. Spesso fotografare vuol dire guardare nella direzione opposta, cambiare prospettiva. È importante anche capire i cambiamenti atmosferici nell’arco di una giornata e tra le stagioni. Vuol dire osservare le diversità della luce.

Infine, consiglio di non avere paura e chiedere sempre gentilmente “Posso fare una foto?” e aspettare il consenso.

Cos’è per te Arte?

L’arte per me è un’espressione spirituale. Non c’entra niente con la bellezza, ma può aiutare a perseguirla. È una forma di vita, una linfa per la riflessione, la critica e la pace interiore. Aiuta a sopravvivere.

Cos’è per te Cultura?

La cultura è un traguardo, un obiettivo da perseguire. Ritengo l’istruzione e l’educazione fondamentali strumenti per alimentarla. Soprattutto per le persone che crescono in ambienti sfavorevoli, credo che l’accesso alla cultura sia necessario come una medicina per rafforzare la resilienza, costruire una propria identità, una consapevolezza critica e un futuro migliore.

Una risposta a “ARTE FOTOGRAFICA: INTERVISTA A STEFANO SCAGLIARINI”

  1. Fa piacere vedere giovani della zona interessati a questioni spirituali ed artistiche.
    Ho conosciuto i lavori di stefano che mi sembra coltivare una poetica visiva molto particolare ed interessante. Grazie all’associazione per avermi aiutato a scoprire questa eccellenza del quartiere. Che bello vivere a San Siro

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